Maria Luisa Marsigli: LA MARCHESA E I SUOI DEMONI. Diario da un manicomio. Prefazione di Franco Basaglia.

Casa editrice: Feltrinelli

Collana: Franchi Narratori

Anno di stampa: 1973

pagg. 206,  19 cm

Classificazione Dewey: 362.21 MAR

Collocazione:

Descrizione

Da: https://www.lintellettualedissidente.it/pangea/il-manicomio-dei-vivi/

Linda Terziroli

Signora, dobbiamo portarla all’ospedale, ma non abbia paura”. Inizia così, con due carabinieri meridionali, che non conoscono le strade che portano ai pazzi, il lungo viaggio della marchesa Maria Luisa Marsigli verso il manicomio criminale prima e poi, giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, dentro le tormentose (quanto legittime) domande sulle modalità sciagurate di cura della pazzia. Come spesso accade, il libro in questione è fuori commercio. Me lo passa, da uno scatolone di vecchi libri, un’amica che studia il tema e riordina la biblioteca. Sto parlando di La marchesa e i demoni – Diario da un manicomio (Feltrinelli, in rete si trovano copie usate) di Maria Luisa Marsigli. La prefazione è di Franco Basaglia. La 180 è del 13 maggio 1978, il libro data 1° gennaio 1973. Dentro, il sublime e terribile racconto della torbida, cupa sofferenza di un manicomio femminile. Nel viaggio verso il manicomio, la marchesa è docile perché desidera che si stabilisca un rapporto di comprensione e che le venga attribuita una seminfermità.

Ha tentato il suicidio, d’accordo, ma l’accusa di omicidio (del marito) è infondata. Entrando nel manicomio, saluta il mondo della ragione per il mondo della pazzia.

“Appena giunta al mio reparto sono circondata da povere pazze che mi fanno ogni sorta di domande assurde. Mi sono spaventata e mi sono chiesta come avrei potuto vivere in quel luogo senza divenire pazza io stessa, come avrei potuto rimanere esposta a quell’atmosfera allucinante senza avere a mia volta delle allucinazioni”.

 

Il paragone tra manicomio e campo di concentramento è evidente sin dalle primissime pagine.

“In infermeria, dove sono condotta, mi tolgono tutto: vestiti, scarpe, carte, denaro e i pochi gioielli che ho con me. Perfino gli occhiali, senza i quali non posso leggere, la fede nuziale dalla quale non mi sono mai separata in vita mia, l’orologio”.

I pazzi sono poveri, poveri pazzi, spogliati di tutto, persino del tempo, dei giorni. Per un unico giorno sempre uguale di una vita irreale. Tutti i suoi averi sono trasportati, come di rito, in “fagotteria”. Al posto dei vestiti, la paziente deve indossare una camicia, che è come un sacco. In pieno giorno, deve andare a letto, anche se sta benissimo e non è affatto stanca. Ma le regole, anche quando sono assurde, non si discutono. Le infermiere, più che infermiere, sono carceriere, perché sono custodi di chiavi e siringhe, il loro emblema. Chiavi che spesso disinfettano. I medicinali inseriti nelle siringhe sono prelevati furtivamente. Nulla di quanto avviene in reparto deve essere conosciuto al di fuori. Né dalle pazienti. Il mondo è alla rovescia.  “L’anormalità qui è la norma e normali sono quelli che non sono troppo nevrotici”.

Come spesso è accaduto, dentro il manicomio finiscono alcune povere donne, senza molte risorse intellettuali o economiche, ma in fin dei conti sane di mente. Anche Maria Luisa Marsigli sa di non essere pazza. Lei ha solo tanto sofferto. In manicomio, riesce a leggere il Time, lei che è vissuta in America. Mi appunto alcuni passaggi che mi suonano familiari. “Rinchiudere in manicomio persone sane di mente è un affare sporco che mette a repentaglio la reputazione degli psichiatri e discredita la psichiatria”. L’Italia è non solo come la Germania dei campi di concentramento, ma pure peggio della Russia. “E poi si parla della Russia! Ma perché non visitano i nostri manicomi e vedranno quello che vi succede. Questa è davvero crudeltà mentale, sadismo, cinismo e tutto lo debbo alla cara suora che mi detesta”. Basaglia, nella prefazione al volume, vi dichiara di aver visto andare in frantumi le teorie alla base della sua formazione.

“Il malato non poteva essere colpevole, oltre che della malattia, anche dello stato in cui lo si curava. Non poteva essere solo la malattia quella che si vedeva sulle facce distrutte di internati abbruttiti, abbandonati, trattati come bestie, peggio, come se non esistessero sotto i nostri occhi, in quei cameroni”.

Franco Basaglia legge le pagine di questo diario e rivive tutta l’angoscia, il senso di colpa, l’orrore di quel suo primo incontro con un manicomio. Oltre al senso di impotenza che, pagina dopo pagina, colpisce con ferocia un lettore, una lettrice, ancora oggi. Una violenza spietata che si fa quotidiana, normale, quasi naturale. Frugare nelle vite (e nel corpo) degli altri come fosse questo corpo, questa mente prima che malata, ferita, una cosa buttata lì, un oggetto da destinare al cestino dei rifiuti. Un foglio da accartocciare. È questo insieme di sensazioni conflittuali che si prova leggendo le pratiche quotidiane che venivano inflitte alle “ammalate”, costrette a letto a dormire in pieno giorno, obbligate a lavaggi cerebrali con iniezioni di largactil confinate al rango di bestie che mangiano dal piatto senza posate (sono vietate), “come fossero maiali”.

Sottoposte, questa malate, a interrogatori di dottori che “vedono pazzia ovunque”. Spogliate dei vestiti e dei loro beni più preziosi, come ebree in un campo di concentramento. Basaglia definisce questo quadro terribile come “un brulicare di rapporti e interazioni dove il più forte riesce a giocare con la vita dell’altro e dove al vinto non resta che accettare il proprio delirio, vero o artificiale, come ultima soluzione disperata”. Uno strano match che a Basaglia ricorda Sartre, che lo cita dall’introduzione del filosofo francese al libro di Henri Alleg, La tortura .

“Uccidersi a vicenda è la regola… Ma nella tortura, questo strano match, la posta sembra essere totale: è per il titolo di uomo che il carnefice si misura col torturato… Scopo dell’interrogatorio non è soltanto quello di costringere un uomo a parlare, a tradire: bisogna che la vittima si autoqualifichi bestia umana attraverso le sue grida e la sua sottomissione: agli occhi di tutti e davanti a se stessa”.

Maria Luisa Marsigli è, però, donna colta, e, per ciò stesso, salva. La sua posizione sociale, la sua ricchezza, la sua intelligenza – durante l’internamento si presta a traduzioni scientifiche per i medici dell’ospedale – le permettono di non essere inghiottita dal sistema di tortura. Anzi, di portarlo alla luce. E ne è consapevole.

“Cerco di convincermi che sono qui come cronista per scrivere la storia di un manicomio. Altrimenti sono certa che non potrei sopravvivere in mezzo a pazzi criminali senza diventare pazza io stessa”.

 

La realtà manicomiale è il rovescio esatto di ciò che dovrebbe essere, non un luogo di cura e riabilitazione, ma di punizione per la colpa grave della malattia mentale.  Le parole di Franco Basaglia, ancora oggi, risuonano con prepotenza attuali. “E ancora se ci fosse qualche dubbio sul fatto che malattia e colpa hanno significati diversi a seconda della classe del malato e del colpevole, questo diario ce ne ha dato un’altra prova”. E ancora: “Malattia e colpa non servono allora che di occasione per l’eliminazione di chi ha un peccato e una malattia originari: quello di appartenere alla classe dominata”. La prefazione, firmata da Basaglia a Trieste, il 10 febbraio 1973, si chiude con due domande senza tempo, da leggere in questo tempo malato, insieme a un libro che dovrebbe invitare a riflettere: “Che cos’è allora la salute rispetto alla malattia? E che cos’è l’innocenza rispetto alla colpa?”. Chi pagherà (ormai è passato troppo tempo) per le ingiustizie commesse sulle ammalate?

*In copertina: Raymond Depardon Psychiatric hospital, Collegno near Turin, Piedmont region. Italy. 1980. © Raymond Depardon | Magnum Photos