Da: https://illavorodelloscrittore.wordpress.com/2013/02/28/filosofia-del-gioco-johan-huizinga-homo-ludens/
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Ecco un altro passo importante nella riflessione sulla filosofia del gioco, un passo che tra l’altro risulta davvero utile e interessante per una maggiore comprensione della contingenza politica (elezioni politiche 2013). Johan Huizinga rappresenta un pensatore scomodo, trasversale. Storico di professione, sulla scia di Shiller ha cercato di proseguire un filone di pensiero sul gioco che porta a considerare il fenomeno ludico come fenomeno centrale, cruciale, dello sviluppo umano. Ecco i capisaldi della sua speculazione, tratti dalla lettura del suo capolavoro: Homo Ludens.
Il contesto e le domande fondamentali di Huizinga
La domanda attorno a cui si concentra tutta l’attenzione speculativa di Huizinga è semplice: quale è la situazione della nostra cultura? Si può parlare oggettivamente di una crisi? Come dobbiamo pensare la nostra società presente? Se c’è una crisi, quale la sua origine? Ed inoltre, che apporto può dare la categoria di gioco all’analisi della cultura? Il suo intento, nello scrivere il saggio Homo Ludens, fu cercare di fornire una risposta a questi interrogativi. Cresciuto in ambiente battista, Huizinga divenne uno storico molto conosciuto per il testo L’autunno del medioevo (1919). Lavorò come docente della cattedra di storia universale a Groningen e Leida, e è fra i primi studiosi che si è occupato di storia della sensibilità.
Come Schiller, Huizinga fu purtroppo uno spettatore privilegiato degli orrori della modernità. Accorto studioso di storia dell’umanità non si distrasse dal suo presente storico e ne fu attentissimo osservatore. Durante “l’evoluzione” politica nella Germania degli anni ’30 e ‘40, il suo spirito critico era vigile nei confronti della crisi di civiltà che stava attanagliando l’Europa ed i suoi ultimi scritti sono tutti concentrati sul tema del valore della civiltà e della cultura umana. In occasione dell’invasione nazista della sua patria, fu fiero sostenitore dell’indipendenza olandese e per questo fu arrestato e morì nel 1945 nella sua prigione. Homo Ludens apparve ad Amsterdam nel 1939, appena alle soglie della seconda guerra mondiale, quasi un testamento intellettuale: il testo rientra nella cornice di una valutazione critica dei motivi della diffusione dell’ideale nazista come esempio di gravissimo puerilismo [1] antidemocratico.
La riflessione di Huizinga in Homo Ludens
Cerchiamo di capire meglio il senso della sua riflessione sulla crisi moderna. Il punto di partenza del nostro autore è semplice e subito esposto nella prefazione:
“Secondo un’idea ormai secolare, spingendo il nostro pensiero fino alle ultime conseguenze del processo conoscitivo umano, si deve giungere a riconoscere che ogni azione umana appare un mero gioco. Colui al quale basta tale conclusione metafisica non deve leggere questo libro. A me non sembra una ragione per trascurare la categoria del gioco come fattore a sé in tutto ciò che accade nel mondo. Da molto tempo sono sempre più saldamente convinto che la civiltà umana sorge e si sviluppa nel gioco, come gioco.”[2]
Banalizzare il gioco, considerando prive di valore tutte le cose che lì si costruiscono, non è l’idea dell’autore. Egli piuttosto riconduce tutti i più alti traguardi umani alla fucina creativa del gioco. Perciò Huizinga si sforza di produrre una definizione del gioco ed una distinzione di cosa sia gioco e di cosa no. Tutto ciò non per avere maggiori elementi sul gioco stesso ma per poter interpretare il presente e la cultura. Infatti, il punto chiave del suo assunto è che il gioco è una categoria per interpretare ciò che accade nel mondo poiché la cultura nasce in gioco. Questa sembra sulle prime un’affermazione molto azzardata: come ricondurre le tante forme culturali che oggi vediamo ad una sola radice così poco seria come il gioco? Proprio in questo senso le ricerche di Piaget, in riferimento al gioco come pensiero in sviluppo, offrono un importante chiarimento. Il gioco è innanzitutto esplorazione ed assimilazione del mondo [3]. Non solo, ma intendere la struttura del gioco su di un piano di contiguità rispetto alla normale rappresentazione cognitiva [4] conduce alla scoperta della bipolarità dello sviluppo cognitivo dei simboli (in cui uno dei poli è appunto il gioco) che giunge, con l’assimilazione e l’accomodamento, ad essere vera e propria comprensione storica [5]. Dal gioco dunque deriva il domino dell’esperienza attraverso la costruzione allegorica ed ipotetica (il come se) in modo che
“Il gioco costruisce un mondo privato per riflettere e trascegliere, per istituire il rilevante”.[6]
Esso si profila quindi come gioia di esser causa [7], è pertanto un tipo speciale di conoscenza che perdura nell’adulto in forme evolute come spazio libero per l’esplorazione del proprio teorizzare e capire: il gioco “è una funzione perenne della mente per fronteggiare le novità esercitando la nostra capacità di ideazione”.[8] Ed è dalla capacità d’ideazione del singolo che, su larga scala, sorge la cultura. Trasponendo questa prospettiva psicologica sul piano collettivo e storico, l’asserzione centrale di Huizinga non sembra più tanto azzardata.
La cultura nasce in gioco. Ma tutto è gioco? No. Distinguere ciò che è autenticamente gioco da cosa non lo è diventa anche un modo per distinguere la cultura vera dalle forme degenerate di essa, come i regimi. Dunque, per ritrovare il senso profondo della cultura o delle sue deformazioni, è necessario partire alla ricerca di un concetto di cultura che comprenda quello di gioco, allo scopo di ritrovare l’origine delle molteplici forme culturali e compiere una rivalutazione del gioco per ritrovare la sua potenza originaria. Evidentemente come Schiller, anche Huizinga ha avvertito quanto sia ignorata o sottovalutata la funzione originaria del gioco.
La cultura nasce in gioco
L’esito primario della sua riflessione è: il gioco non è una forma di cultura tra le altre. La cultura, invece nasce in gioco, la cultura è il gioco stesso quando permane nel tempo. La cultura non è nemmeno un prodotto del gioco che da esso si separa, essa è tale solo come parte di esso: come un ramo di un albero non si può distaccare dal tronco senza non seccare. Ossia: non c’è altra sorgente che vivifichi tutte le diverse forme di ciò che noi chiamiamo cultura se non il gioco, poiché il gioco è la radice della cultura. Se una cultura si stacca completamente da questa vera radice ludica non è più cultura ma la sua crisalide ormai morta, un ramo secco (buono per il fuoco).
L’autore sente che, ovviamente, per poter supportare questa sconcertante affermazione è certo necessario intendersi su cosa sia il gioco ed è per questo che cerca di dare una definizione del gioco che dal punto di vista formale [9] non è certo molto rigorosa né adatta a costruire una morfologia del gioco, tuttavia indica precisamente le proprietà che egli forse intendeva come essenziali nella sua nozione di gioco: è misterioso e contemporaneamente è la prova della libertà che vince il meccanicismo. La prospettiva secondo cui il gioco è solo una forma di cultura fra le tante è una deformazione moderna. Con ironia socratica, quasi giocando con i suoi avversari, l’autore inizia assumendo questa posizione e così, nel definire la natura e il significato del gioco come un fenomeno culturale, Huizinga mostra con semplicità la contraddizione che ne deriva: se il gioco fosse un prodotto esclusivo della cultura umana non vi sarebbe gioco al di fuori di essa, ma il gioco è ben più antico della cultura perché il gioco si manifesta già nella natura (che sussite prima dell’uomo e della cultura). In natura è infatti possibile scorgere alcuni elementi semplici ma universalmente riconoscibili del gioco: cerimonia della sfida, osservanza di regole tacite, finzione e mascheramento (il leoncino si acquatta e finge di essere arrabbiato, i cuccioli di ogni specie che giocano per apprendere). Si manifesta come gioco e non come addestramento poiché è associato al piacere di agire. Nel gioco infatti è insito un piacere d’agire seguendo alcune limitazioni. Dunque, già nelle forme naturali, il gioco è più che un mero fenomeno fisiologico o una reazione psichicamente e\o fisiologicamente determinata, oltrepassa i limiti dell’attività biologica, è una funzione che contiene senso, ogni gioco significa qualcosa ed ha un elemento immateriale che lo caratterizza. Vedremo come sia chiaro Rahner circa questo tema del significato profondo del gioco.[10]
In ogni caso il gioco non è dato come prodotto esclusivo della cultura umana e non può dirsi fenomeno culturale poiché esiste prima della cultura e dell’uomo. Si può invece pensare l’inverso (la cultura come conseguenza del gioco) senza cadere in contraddizione.
Il posto del gioco nel tutto: utile o fine a se stesso?
Comunque – prosegue Huizinga – molte sono le spiegazioni e le teorie sul gioco e diverse sono le scienze che tentano una definizione e cercano di assegnare un posto al gioco come ad una delle funzioni della vita. Si suggerisce che esso sia un modo di esprimere energie superflue, oppure nasca dal gusto innato per l’imitazione, oppure che esso soddisfi un bisogno di rilassamento, o che esso prepari allo sforzo serio della vita, oppure che sia un allenamento all’autocontrollo, oppure ancora lo sfogo di un istinto a “esser causa”, a comandare o combattere. Tutte queste soluzioni hanno come punto in comune la presupposizione che il gioco sia in funzione di qualcosa e che serva ad una data utilità biologica. Ma il nostro autore si chiede, più in profondità: perché si gioca? Da un lato possiamo riflettere che le molte risposte non si escludono sempre l’una con l’altra e ciascuna può rivelare alcuni aspetti del gioco, ma da ciò ne consegue anche che tutte sono spiegazioni parziali, nessuna è completa. Alla fine c’è sempre il problema del gusto del gioco, il piacere che sfugge a qualsiasi analisi logica ed è proprio quest’elemento – sottolinea Huizinga – che caratterizza l’essenza del gioco. Infatti, nel gioco traspare lo spirito, il quale, proprio come il gioco, non è materia ed oltrepassa già nella natura i confini dell’esistenza fisica: gli animali sanno di giocare e sono per questo qualcosa di più che semplici meccanismi, e sono testimoni del legame più profondo fra gioco e vita stessa, molto prima che con l’uomo. L’autore infine giunge ad una conclusione: solo per l’influenza dello spirito che abolisce l’assoluta determinatezza meccanica del corpo l’esistenza del gioco diviene possibile. Il gioco è il sintomo di una porta che si dischiude, è una relazione possibile con il tutto.
“L’esistenza del gioco conferma senza tregua, e in senso superiore, il carattere sopralogico della nostra situazione nel cosmo.”[11]
La cultura nasce dal gioco o il gioco dalla cultura? E perché questo dovrebbe essere importante per noi?
L’idea che il gioco sia una conseguenza della cultura è l’idea più diffusa, è la nozione comune. Lo sforzo di Huizinga è diretto proprio a sovvertire questa idea. Ci si potrebbe chiedere perchè è così importante stabilire una gerarchia di “nascita” fra gioco e cultura. Benché la risposta appaia chiaramente nel proseguimento della riflessione, è bene rilevare il concetto in sintesi: l’origine viene prima della conseguenza (le radici prima della chioma) ed in generale l’origine vivifica la propria conseguenza. Sbagliando si finirebbe a innaffiare la chioma e lasciare aride le radici. E sbagliare, nel campo del rapporto gioco-cultura, significa fare proprio quello che la nostra società sta facendo: restringe gli spazi dedicati al vero gioco anche se mantiene in alta considerazione la cultura (beh, data certa politica, non sempre). l’errore è deleterio e dannoso: non diamo acqua alle radici della società, non diamo energia (fondi, laboratori, progetti, studiosi e competenze..) alla dimensione del gioco, quindi anche la vera cultura finisce per avvizzire. Perciò lo sforzo teorico di Huizinga è più che giustificato: è un medico che cerca di curare una grave malattia della nostra società e, se continueremo a non ascoltare questa voce, presto vedremo le nefaste conseguenze di una società che ha finito per far seccare la propria radice.
Il gioco come origine della la cultura
Dunque la natura mostra che il gioco precede l’uomo e la sua cultura. Quindi, rovesciando la nozione comune presso noi moderni, piuttosto che considerare il gioco come un fenomeno culturale, si può provare ad intendere come la cultura sia un fenomeno ludico.
Le grandi attività della vita umana sono tutte intessute di gioco: il linguaggio, ad esempio, come primo e principale strumento che l’uomo usa per imparare, comunicare e comandare, è uno strumento che nasce come gioco e rimane, nel poeta e nel grand’uomo, gioco.
“Lo spirito creatore della lingua, giocando, passa continuamente dal materiale allo spirituale.”[12]
Tornando nel remoto passato anche il mito dimostra come, tra lo scherzo e la serietà, il gioco è una trasfigurazione delle cose terrene sul piano divino. Se infatti tornassimo ai primordi della civiltà, troveremmo ovunque l’incredibile unione di gioco e sacro. Poiché il sacro, nella remota antichità, è sempre all’origine della cultura, la tesi trova qui la sua conferma. Nei culti le civiltà antiche compiono riti sacri per la salute del mondo, giocano con le forze soprannaturali una partita cosmica, la comunicazione fra i piani è possibile solo attraverso delle attività autenticamente ludiche.
La definizione di gioco di Huizinga: le proprietà del gioco
Dopo aver ricordato questo legame fra gioco e momenti sacri della comunità, l’autore torna alla definizione per sgombrare il ragionamento da una comune ma falsa opinione: nella nozione comune il concetto di gioco si oppone a quello di serietà. In realtà questa non è un’opposizione significativa, ossia non rispecchia una differenza essenziale. Si può essere molto seri nel giocare e tutti i bambini ne sono testimoni. Il gioco quindi è serio e non serio: l’opposizione non regge poiché il gioco può oscillare fra i due poli rimanendo pur sempre gioco. La serietà o non serietà non sono elementi del gioco ma del giocatore e del suo approccio con il fenomeno. Inoltre – continua Huizinga – il gioco sembra avere rapporti col bello e col ritmo, con l’armonia e con l’arte. Esso rimane come isolato dalle altre forme di pensiero, è un’attività libera e non può essere imposto né da necessità fisica né morale, si pone come alternativo alla vita ordinaria e quotidiana poiché non è la vita “vera”, anzi è allontanarsi dalla sfera del quotidiano per entrare in una temporanea sfera “altra”, insomma viene fatto “per finta” e “per scherzo”, nel gioco si inserisce un’azione provvisoria e autotelica – fine a se stessa – eseguita per amore della soddisfazione che sta nell’esecuzione stessa. Infine il gioco è incerto, non se ne conosce il finale che rimane ammantato di mistero.
Non solo tutto ciò è in linea con quanto è emerso nella teoria di Schiller, ma c’è anche un ulteriore approfondimento nel ritrovare il legame tra il sacro ed il gioco. Nelle sue forme originarie e superiori, in cui significa o celebra qualcosa, il gioco appare nella sfera della festa e del culto, nella sfera del sacro. Il gioco (come il culto sacro in ogni forma di celebrazione) si isola dalla vita ordinaria per luogo e tempo. Alla caratteristica della limitazione temporale qui esposta si collega la caratteristica forse più importante del gioco, almeno nell’ottica di Huizinga: esso, appena concluso, si trasmette subito come fatto di cultura, come tesoro dello spirito, è tramandato, è ripetibile, esso è ritornello e regola, è possibile rifare il gioco.
“Ora, alla sua limitazione nel tempo, si collega immediatamente un’altra qualità curiosa. Il gioco si fissa subito come forma di cultura. Giocato una volta, permane nel ricordo come una creazione o un tesoro dello spirito, è tramandato, e può essere ripetuto in qualunque momento, sia subito, come è per i giochi infantili, per il tric-trac, per una gara, sia anche dopo un lungo intervallo. Questa possibilità di ripresa è una delle qualità essenziali del gioco.”[13]
A questo punto Huizinga ha offerto uno spunto molto interessante: il gioco è poetico (creatore) poiché crea una situazione “tipica” che offre una possibilità di ripresa. In realtà qui troviamo due concetti confusi: da un lato il gioco come esperienza estetica si fissa nel ricordo come un evento di conoscenza sensibile, è un’esperienza emotiva e spirituale e la rappresentazione che esso ha prodotto è quindi cultura che può essere tramandata. Dall’altro il gioco possiede una essenziale proprietà che consente la ripetizione, di riprendere nuovamente quella regolarità, cioè le regole del gioco sono una costante di cui le molte partite sono tante varianti. Quindi anche ciò che rende costante un gioco, le sue regole, si fissa e si tramanda come cultura.
Il gioco creatore di cultura
Insomma, il gioco è poetico, è creazione di cultura (creativo ma non produttivo in senso utilitario) quanto alle rappresentazioni che provoca come esperienze estetiche, ed è cultura anche nel suo creare i vari sistemi di regole che, a loro modo, sono un patrimonio di conoscenza. In sintesi è cultura in quanto strumento ludico ed in quanto azione ludica.
Ecco svelata la genesi primordiale della cultura che nasce in gioco: rispettando la complementarietà della sua sorgente[14] fin da primordi la cultura si presenta sotto due aspetti. In parte è come regolarità, come metodo, come un “oggetto costante”, corpus di regole (che nell’ambito di una filosofia del gioco chiameremo strumento ludico) che rappresentano un qualcosa di “costante”, fuori dal tempo o possibile in ogni tempo. Per l’altra parte la cultura è la realizzazione di una delle tante possibili applicazioni di un metodo, come una sequenza “variabile” di eventi nel tempo e nello spazio (una rappresentazione teatrale, un concerto, un dipinto), e dunque la cultura è anche la soggettiva rappresentazione del verificarsi dell’evento sensibile (l’azione ludica). Entrambi gli aspetti si possono conservare nella memoria come rappresentazioni individuali e collettive: si possono trasmettere alle generazioni future come patrimonio di conoscenza. Tale conservazione però poggia sul fatto che il gioco che ha originato tanto il metodo (regole) quanto l’evento (partita), in qualche modo, debba essere percepito come qualcosa di prezioso, di significativo: esso cioè è correlato ad un piacere ma anche a delle conoscenze. Solo se così concepito il gioco rimane centrale nel processo di creazione della cultura e quest’ultima rimane prolifica, viva.
Altri elementi del gioco
L’essenza del gioco non ha ancora esaurito le sue caratteristiche culturalmente influenti: oltre a determinare dei luoghi sociali deputati, separati, “recinti consacrati” al gioco, esso ha la funzione di creare una stabilità sociale (se non ci fossero gli stadi, cosa accadrebbe oggi?). L’autore, citando Paul Valèry, ricorda che riguardo alle regole del gioco non è possibile lo scetticismo: l’esistenza del gioco distrugge la possibilità dello scetticismo assoluto poiché se non si è costretti ad accettar le regole non si può però certo dubitare della loro esistenza! Seppure arbitrarie esse sono sotto gli occhi di tutti e sono imprescindibili. Infatti, se non vi sono le regole non vi è il gioco e non appena si trasgrediscono le regole il gioco crolla. Il gioco inoltre è sempre tra giocatori e, da uomo sottile, l’autore ricorda alcune cose proprio su questi ultimi: si distingue il baro dal guastafeste. Il baro finge di accettare le regole ma, almeno in apparenza, continua a riconoscere il cerchio magico dell’illusione. Il guastafeste invece, spezza l’in-lusio (l’essere nel gioco) e minaccia l’esistenza della comunità giocante.
Le deformazioni del gioco
Ecco che l’autore entra nel campo più spinoso. Quando una società non riesce a porre il gioco nella giusta posizione, esso si deforma e produce conseguenze disastrose. La comunità giocante ha infatti la tendenza a tramutarsi in dittatura, in società circolare e chiusa, gruppo d’èlite. Il gioco assume facilmente i connotati del segreto e del mistero (“questo è nostro e non degli altri”) ed in ciò si esaspera, o meglio degenera la caratteristica poetica propria del gioco, caratteristica illustrata da Piaget allorquando parla del gioco come assimilazione del mondo e della “gioia di esser causa”.
Il gioco e la sfera sacra
L’essere diverso e misterioso del gioco si ritrova facilmente nel travestimento e nella maschera. Huizinga sostiene che dal gioco dei bambini al gioco sacro dei primitivi il passo è breve, nel sacro si aggiunge una spiritualità che non è definibile facilmente. Tema questo che sarà ripreso in seguito da Roger Callois. L’autore passa così ad una descrizione del culto sacro nei riti che l’antropologia ha rinvenuto in ogni tempo e luogo per poterlo paragonare al gioco e rilevarne infine i legami e le similitudini. Servendosi delle ricerche scientifiche a lui note, dai remoti meandri del tempo, può emergere una sconvolgente origine giocosa del culto sacro: il momento sacro con la divinità è lotta, è conflitto contro qualcosa di invisibile e superiore e diviene lotta bella, reale, divina, l’azione (almeno per chi la compie) realizza una certa salvezza, promuovendo uno stato di vita superiore che si raggiunge proprio in virtù della reciprocità che gli déi hanno concesso all’uomo. Contemporaneamente il culto è anche celebrazione e festa del sovrannaturale, è un sacrificio per ingraziarsi il favore degli déi. Per questo l’azione sacra è anche “dramenon”, “qualcosa che si fa”, è creazione di un evento esemplare, è danza, teatro, musica, o infine poesis linguistica in onore degli esseri sovrannaturali. L’azione sacra condivide con l’azione ludica l’importante caratteristica di proiettare i partecipanti in una dimensione al di là della vita ordinaria, un tempo ed uno spazio sacro. Nei suoi due aspetti di lotta e celebrazione l’azione rappresenta un avvenimento cosmico, riproduce un evento maggiore e divino riproducendolo in terra, lo ripete per causare il medesimo effetto: ma non è un semplice imitare, è un vero partecipare all’azione, un modo di co-agire e di comunicare con il divino. Il culto primitivo – dice Huizinga- è “helping the action out”, è un parto cosmico: come concreto esempio l’autore cita i Veda indiani in cui il culto, attraverso l’azione di raffigurazione di un evento simbolico, è un costringere gli dei a far accadere a livello cosmico proprio quell’evento auspicato. Il culto arcaico – chiosa Huizinga – è pertanto una sorta di spettacolo, è una rappresentazione, ma in virtù del mistero che ne rende ignota la conclusione è un gioco fra uomini e déi.
Per comprendere il mistero del culto dell’uomo antico come momento di formazione della comunità è necessario uscire dai moderni parametri utilitari o psicologici per invece concepire un’esperienza ancora inespressa e misteriosa di rapporto con la natura e la vita, che si manifesta come “commozione”, la medesima commozione che ancora oggi può muovere un’artista o un fanciullo. L’autore cita l’antropologo Leo Frobenius:
“Nei popoli, come nei bambini e in ogni uomo creativo, il dare forma nasce dalla commozione.”[15]
Il gioco sacro rituale si inserisce in un ordine cosmico. In sostanza – rileva Huizinga – non è un particolare trascurabile il fatto che il culto sacro condivida le sue principali caratteristiche col gioco. Se la primordiale tensione alla forma trova soluzione nel gioco divino, se l’immaginazione arcaica si esprime in forma ludico-sacra, allora proprio quel giocare sacro si accosta in molti elementi al gioco della natura e dei bambini: ordine, tensione, movimento, solennità, fervore sono le parole più adatte a descrivere entrambi i fenomeni. Il gioco è quindi, ancora nel moderno, l’origine e la radice di quel tipo di rapporto con il tutto.
“Nella forma e nella funzione di un gioco, l’idea di essere noi compresi in un cosmo, cioè in un ordine sacro, ottiene la sua primeva e suprema espressione. Dentro il gioco viene incuneandosi a mano a mano il senso di un atto “sacro”. Il culto si innesta al gioco. Però il giocare in sé fu il fatto primario.”[16]
Giocare è il fatto primario. Questa conclusione netta e decisa riporta la rivalutazione del gioco in primo piano e la priorità logica e cronologica del gioco implica non solo quella nuova prospettiva sulla genesi della cultura che abbiamo già indagato, ma anche una nuova concezione del gioco: il gioco crea e mantiene un ponte analogico fra l’intero cosmo e il recinto sacro in cui si svolge il gioco. L’ordine del grande universo che circonda l’umanità è quanto di più meraviglioso e pauroso, è una danza incessante degli elementi. Ma nel gioco si esprime proprio un’innata, originaria, archetipica consapevolezza dell’essere parte di quest’ordine incomprensibile eppure evidente. Solo per questo l’umanità struttura sempre più i suoi giochi che prendono progressivamente la forma separata e specifica di culto. L’origine è però quella commozione che, innanzi alla vitalità organica dell’universo, sorge nel cuore dell’uomo allorché si sente inserito in essa. In sintesi chi non gioca non può comunicare con il divino. Chi dice di comunicare con il divino ma ha perso la radice ludica di questa comunicazione, probabilmente, mente.
Il gioco, dunque, non solo è rappresentazione, ma è rappresentazione allegorica della totalità, è la riproduzione nel piccolo di tutto ciò che di essenziale avviene nel grande, è celebrazione della grandiosa danza celeste: ne è esempio anche il nostro “girotondo”. Infine, anche Platone – aggiunge Huizinga, quasi per cercare un alleato che sia testimone diretto dei culti antichi – sosteneva senza timore che c’è un’identità fra gioco e azione sacra e non esitava ad includere le cose di ordine sacro nella categoria del gioco e ne concludeva che l’uomo deve passare la vita nei giochi più belli per compiere la sua natura semiseria (o ludica) nel canto, nel ballo, nei giochi come sacrifici per rendere propizi gli dèi.[17]
Perché la filosofia del gioco è così importante
L’autore, nel definire cosa sia il gioco, combatte una dura battaglia contro l’oblio moderno in cui esso ha perso il suo carattere principale: il gioco è il ponte con il sacro. Egli cerca in tutti i modi di ricordarci che la sacralità in ogni sua forma (del culto, della festa, dei rapporti in genere) è l’effetto del gioco, nasce come una forma in gioco e prosegue vivendo nel gioco e non può crescere al di fuori di esso: perde la sua sorgente e diviene ritualità sterile. Inoltre, in questo modo egli dimostra che nella nostra infanzia arcaica riconoscevamo la chiara linea che – ieri come oggi – lega il gioco al piccolo uomo nella sua adorazione felice, e lo lega all’arte della parola dello sciamano-poeta che guidava la comunità in questa sacra danza.
Il gioco e il presente storico
Dopo aver definito meglio cosa sia il gioco e che rapporti abbia con la sacralità, l’autore può tornare sul piano che sembra per lui più urgente: il legame fra gioco e cultura. Si comprende l’urgenza pensando al fatto che questo legame riguarda ciascuno di noi, è alla base della nostra quotidianità, poiché ciascuno prende parte nella formazione collettiva della cultura. Si deve ben intendere in che senso la cultura sorge in forma ludica:
“Punto di partenza deve essere il concetto di una quasi infantile disposizione al gioco che si esterna in tante forme ludiche; in azioni cioè legate a regole e sottratte alla vita ordinaria, azioni nelle quali si possono sviluppare bisogni innati di ritmo, di alternazione, di gradazione antitetica, e d’armonia. [..] Ogni essenza mistica e magica, ogni ente eroico musico, logico e plastico cerca forma ed espressione in un nobile gioco. La cultura comincia non come gioco o da gioco ma in gioco.”[18]
La cultura non sorge né permane in se stessa, essa nasce quando viene giocata (nasce in gioco): i due termini gioco e cultura sembrano diversi e separati ma la cultura è solo la qualifica applicata dal nostro giudizio storico al dato caso avvenuto all’interno del cerchio magico dell’in-lusio. In seguito il trascorrere del tempo cristallizza le forme ludiche in forme strutturate di riti sacri, poesia, saggezza, diritto, vita pubblica, etc., e così la qualità ludica viene ad essere sempre più nascosta e sommersa, seppure non è mai eliminata da una cultura vivente. Per mostrare come la parte vitale della nostra cultura rientri nella definizione appena data, Huizinga intraprende una lunga ricerca, allo scopo di mostrare la radice ludica, l’origine comune nelle diverse ramificazioni della cultura moderna. Passa così all’analisi del valore della forma agonistica del gioco ed il suo apporto alla cultura per mezzo della tensione alla vittoria (la buona contesa di cui parla anche Esiodo nell’incipit de Le Opere e i Giorni), prosegue con il rapporto fra gioco e diritto, gioco e guerra, gioco e sapere, gioco e poesia ed i misteri della figurazione allegorica e mitica, non manca l’indagine sullo stretto nesso fra gioco e filosofia, infine gioco ed arte. In ognuna di queste relazioni, egli lascia che possano emergere i tanti elementi che mostrano con evidenza l’origine ludica della cultura.
Finalmente, fornita al suo assunto (la cultura nasce in gioco) una più che solida base, può dare una visione rapida dell’evoluzione del rapporto tra cultura e gioco nella storia, ossia può avvicinarsi al suo intento: rispondere alla domanda circa lo stato presente della nostra cultura con riferimento alla crisi generale ed ai terribili casi politici. Partendo a ritroso, ammesso che nel periodo arcaico della civiltà questo rapporto dell’uomo col gioco è totale, ci si domanda fino a quando è possibile rintracciare questa relazione. Offrendo esempi e casi comprovanti le sue affermazioni, l’autore ripercorre la storia. La civiltà greca, i romani, il Medioevo, il Rinascimento, l’Umanesimo, il Barocco, il Roccocò, il Settecento, il Romanticismo, tutti questi periodi sembrano contenere, sotto forme diverse, un certo contenuto ludico che non è mai eliminato a livello generale di civiltà ed è sempre produttivo di cultura. Nell’Ottocento invece – rileva l’autore – c’è un punto di svolta: l’utile, il fattore economico, il calcolo insensibile prevale su ogni altra forma di pensiero; l’uomo si sente ormai adulto e maturo, non ha più tempo né per il gioco né per la sua inutilità. Il gioco acquisisce molte delle connotazioni negative che oggi gli attribuiamo (cosa poco seria, passatempo per bambini, inutile spreco di tempo..). Tutto divine “austero” e senza scherzo e gli uomini si applicano con scienza all’aspirazione di soddisfare i desideri terreni. Qual’è dunque l’elemento ludico nella cultura odierna? In che stato ritroviamo questo elemento che è emerso dall’antichità come l’unica sorgente di ogni forma di cultura? Tale domanda è al cuore dell’interesse di Huizinga poiché la storia mostra un cammino sempre più arido e pericoloso. In un’epoca che lo ha degradato oltre ogni tollerabile grado, tramutando quello che un tempo era il cuore e la sorgente della cultura in un elemento esterno e frivolo, si impone la necessità di rivalutare completamente il gioco e ciò richiede una propedeutica rivalutazione dei valori in auge nella società moderna, ciò che noi chiamiamo “nostra cultura”.
“Il termine ‘cultura odierna’ viene dunque usato qui con un margine molto largo che ha i suoi limiti fino a molto addentro nell’Ottocento. Si tratta di sapere se la cultura in cui viviamo si sviluppa sempre nelle forme del gioco. In quale senso lo spirito ludico ispira l’uomo che crea e subisce quella cultura? Il secolo precedente, a nostro vedere, aveva sacrificato molti di quegli elementi ludici che distinsero tutti i secoli anteriori. Orbene, si è ristabilito quel deficit, o è aumentato invece?”[19]
La risposta corretta a questa domanda – sottolinea il martire olandese – si ottiene purificando il pensiero da giudizi precoci circa alcuni fenomeni che farebbero rispondere affermativamente. Infatti l’esplosione sociale dello sport o la diffusione dei circoli di giocatori di carte, dei casinò e delle scommesse si rivela priva di ogni rapporto diretto fra i giocatori[20] e quindi necessariamente priva anche di ogni aspetto sacrale.[21] Così tutto questo fervore “apparentemente ludico” non serve certo a sostituire il genuino e fecondo valore del gioco come momento di un originario rapporto con l’universo e fra gli esseri umani. Da un lato la sempre crescente regolamentazione ed istituzionalizzazione impedisce a queste forme di essere realmente creative, diventano sterili manifestazioni in cui il fattore ludico è ormai quasi assente (il giocatore è professionista).
Quindi, nonostante una certa patina “ludeggiante” della società moderna, dopo un’analisi disincantata essa appare povera di momenti puramente e genuinamente ludici. La ricerca di Huizinga si avvicina qui al vero problema: spiegare la crisi moderna. Cosa accade allorquando l’uomo non trova più momenti di espressione del gioco autentico? Può l’umanità essere equilibrata e responsabile se in essa il fattore ludico non trova più spazio? La domanda è cardinale. Qui si concentra tutto il dramma del nostro presente. La tesi di Huizinga è la seguente: in una civiltà che gioca veramente ritroviamo quali primi effetti la consapevolezza del limite, il rispetto delle regole, l’accettazione della relazione universale che sussiste fra uomini che è la base dell’azione morale, ritroviamo insomma il fondamento della responsabilità. All’inverso, nella cultura in cui non trova più spazio il fattore ludico originario, il puerilismo si fa sempre più grande. Sempre il puerilismo sostituisce il gioco ove questo sia assente o svalutato.
Il puerilismo è un termine che Huizinga adotta per indicare un preciso atteggiamento nei riguardi del mondo, atteggiamento che si instaura in assenza di momenti genuini di gioco. Se il gioco è un impulso originario e formativo, allora l’uomo che non gioca tenderà ad esprimersi con altri canali. Ma il canale del gioco è l’unico che, oltre al piacere, gli garantiva anche una volontaria sottomissione al limite: il puerilismo invece connota il comportamento di tutti coloro che non accettano i limiti, la cui azione è ovviamente distruttrice. Il puerile rifiuta i limiti. Il puerile è assoluto, è autonomo, è indipendente, è autarchico, si prende gioco degli altri e non gioca con gli altri, il puerile rifiuta le regole e le relazioni oggettive che a lui non sono gradite, il puerile fa le regole e non le rispetta. Pertanto un uomo può instaurare col mondo un rapporto di tipo puerile allorquando non avviene una volontaria sottomissione ai molti limiti a cui un uomo è sottoposto dalla natura materiale e dalla ragione. Ecco che l’impulso al gioco è snaturato, l’armonia si perde e la “gioia di esser causa” si tramuta in puerile “euforia di esser causa assoluta”. Ricordando che l’autore scrive nel 1939, ricordando la radice ideologica del nazismo, non si può non rabbrividire. In effetti, da una prospettiva più generalmente filosofica, il puerilismo può esser tradotto in termini di uno sconveniente rapporto tra finito ed infinito[22], e lo slancio morale di Huizinga non appare più eccessivo: la sua posizione teorica, pur non essendo sistematica, si oppone in sostanza alla visione hegeliana ed idealista, la quale, annullando il limite imposto dal principio di identità, fa dell’uomo un interprete assoluto dello spirito razionale, rendendo gli adepti di questo pensiero esseri superiori e senza regole (non accettano il principio di identità), in sostanza, puerili. In ogni modo, ed al di là di faide filosofiche, l’autore sottolinea il fatto che, collettivamente parlando, la causa del crescere di questo atteggiamento sociale detto appunto puerilismo è la mancanza di vero gioco.
Cosa accade quando predomina il puerilismo
Quando predomina il puerilismo le occupazioni tradizionalmente serie e non frivole (politica, lavoro, arte, ricerca, etc.) vengono ad essere affrontate con uno spirito sempre più di agonismo puerile, irrazionale ed irregolare (non è giocoso, non rispetta le regole) che investe ogni aspetto della società. Ovunque sembra che si debba lasciare spazio solo a questo deformato sosia del senso agonistico. In particolare oggi si può facilmente riscontrare il predominio del puerilismo nel mondo politico (si paragona la politica ad una partita tra avversari, si vuole spazzare via, distruggere tutto e tutti). La vita politica è ormai degenerata a battaglia di sotterfugi per il voto e si ammanta di un carattere ludico (“scendo in campo..”) per nascondere il carattere puerile: l’odio del limite. Anche l’arte moderna, con la sua sacralizzazione dell’opera e idolatria dell’artista (un tempo era un semplice artigiano e oggi è un semidio da adorare di cui ci si conserva il feticcio sacro), perde l’ultimo residuo di carattere ludico e assume un carattere esoterico: l’artista è circondato da un cerchia di “eletti” a cui sono concessi i suoi segreti[23]. Oppure la ricerca intellettuale: i nostri Faust, scienziati, professori e dottori moderni, rifiutando ogni limite morale e protesi in un’affannosa gara al progresso senza limiti, in agonistico e competitivo conflitto per trionfare sugli oppositori, tramutano l’amore per la verità [24] in una competizione selvaggia – lotta di cinghiali – per cattedre e per finanziamenti, per il successo, il denaro o per la gloria personale.
Dice Huizinga (e ribadiamo: scrive nel 1939) – che l’affermarsi delle dittature e delle degenerazioni delle società moderne, nel costante richiamo alla “superiorità” e alla “vittoria”, testimonia continuamente circa il piano pseudo-agonistico che si cerca di creare senza tuttavia che sia presente un vero rispetto per le regole. L’autore in conclusione afferma:
“Allora sorge la domanda su cui si impernia il nostro esame: bisogna considerare come funzione ludica sì o no il puerilismo prosperante rigogliosamente nella vita moderna? [..] Un bambino che gioca non è mai puerile. Diventa puerile solo quando il gioco gli viene a noia o quando non sa a cosa giocare. Se l’odierno puerilismo generale fosse un autentico gioco si dovrebbe con ciò vedere la società avviata al ritorno verso le forme arcaiche di cultura, nelle quali il gioco era un vivissimo fattore creativo. Molti tenderanno forse a salutare davvero in quel “reclutamento” progressivo della collettività la prima tappa di un tale ritorno. A torto mi sembra. In tutti i fenomeni di un atteggiamento spirituale che abbandona volontariamente la propria maschia responsabilità, non posso vedere altro che i segni di una imminente dissoluzione. Vi mancano le caratteristiche essenziali del gioco autentico, sebbene i comportamenti puerili assumano quasi sempre esteriormente le forme del gioco. Per riacquistare consacrazione, dignità e stile converrà che la cultura faccia un altro cammino.”[25]
Un altro cammino. Un cammino in cui la società abbia imparato a dare valore al vero istinto ludico e abbia saputo favorire (finanziare) progetti e iniziative che permettano lo sviluppo nell’individuo e, di conseguenza, nella collettività, di una conoscenza del gioco genuino e la possibilità di esercitare il sano istinto al gioco. Viceversa ci attendono imminenti dissoluzioni. Il testo scritto nel 1939 mantiene oggi la sua forza. Inoltre il puerilismo è malizioso: s’ammanta di false vesti, appare sotto la categoria del gioco ma è un’apparenza ingannevole, il puerilismo sembra un gioco, eppure non lo è. Perché l’autore si affatica per smascherare il suo artificio?
“La cultura moderna ormai non viene quasi più giocata, e là dove sembra giocare, il gioco è falso”.[26]
Perché l’uomo (o una collettività) puerile si ammanta del suo opposto usando le arti di un mago illusionista? Per sfuggire alla presa, (come si evince dalla riflessione di Callois) è la maschera di cui esso s’ammanta l’arma dell’attuale classe al potere. In cosa sono differenti vero gioco e la sua maschera illusoria? Il vero gioco non è mai puerile poiché nel gioco è insita la responsabilità che nel puerilismo è assente. Il punto della responsabilità che viene a mancare nella società moderna per la sua carenza di gioco è la conclusione più amara dell’autore. E lì dove viene a mancare la responsabilità come fondamento della vita civile, la dissoluzione è imminente. Così mentre la reale opposizione politica che rispetta le regole è sempre una forma schiettamente ludica, una politica puerile appare giocosa ma non conserva il vero rispetto dell’avversario e tende al predominio ed alla dissoluzione del nemico. Non c’è reciprocità, non c’è gioco.
Anche la guerra moderna – continua Huizinga – non ha più alcun carattere ludico (è distruzione di massa) poiché i rapporti politici sono imperniati sul principio “amico-nemico”. Ciascuno Stato all’occorrenza è amico o nemico, ma nel secondo caso non è più “avversario” o “oppositore” degno di rispetto, ma un “ostacolo” che deve solo essere rimosso, cancellato meccanicamente, eliminato, e non più semplicemente sconfitto, battuto. Questo è purtroppo il misero principio alla base della politica estera – e dal 1939 ad oggi non sembra cambiato molto, forse solo più sofisticato! Non voler superare tale misero principio conduce gli uomini verso la perdita della dignità: l’avversario diviene cosa, oggetto e non è più un avversario del gioco. Lo spirito dell’uomo è reificato, l’uomo è ormai considerato come macchina, aggregato di parti, Esaù sta vendendo la sua primogenitura per un piatto di lenticchie.
In tempi sempre più globali, ancora una volta il fattore ludico – e nella fattispecie il rispetto delle regole condivise – sarebbe l’unico fondamento per una civiltà interculturale fondata sul diritto internazionale e sulla dignità dell’individuo e non sull’assolutismo e sull’arroganza. Se dunque una cultura vera è fondata sul gioco, allora non può fare a meno di quel fattore senza diventare ignoranza. Invece nel panorama attuale – tanto individuale che sociale – non c’è remora né vergogna nel sostenere che pacta non sunt servanda[27] e nell’agire di conseguenza, perdendo ogni serietà e rispetto che c’è nel vero gioco. Infatti, sebbene la “serietà” sia in genere opposta al gioco, proprio l’oggettività della regola all’interno del gioco richiama l’oggettività mondana della legge, del diritto e della morale, la quale fonda l’assoluta serietà della realtà: sono questi gli elementi che elevano la vita sociale a questione seria. Il rispetto delle regole nel gioco rende il bambino molto serio. Per questo da un lato l’oblio del gioco autentico causa una debolezza della nozione di oggettività delle regole, e il lassismo morale causato dal relativismo è a sua volta causa di confusione circa il gioco e la sua possibile serietà. L’abbandono del valore oggettivo del diritto (e dell’etica ad esso sottesa) causa l’impossibilità di stabilire una separazione tra gioco e serietà: tutto diviene “scherzabile” – puerile appunto – non c’è nulla di serio ma non c’è nulla di giocoso, non c’è confine tra lo scherzo e l’azione seria. Dunque, ritroviamo ancora il profondo legame fra la consapevolezza morale e il gioco:
“Nel criterio del valore etico si decide l’eterno dubbio di gioco o serietà. Chi nega il valore oggettivo di diritto e norme morali, non troverà mai il limite fra gioco e serietà. La politica è fissata con tutte le sue radici nel terreno primitivo di cultura, giocata in competizione. [..] E così siamo giunti ad una conclusione: cultura vera non può esistere senza una certa qualità ludica, perché cultura suppone autolimitazione e autodominio, una certa facoltà a non vedere nelle proprie tendenze la mira ultima e più alta, ma a vedersi racchiusa entro limiti che essa stessa liberamente si è imposti. La cultura vuole tuttora, in un certo senso, essere giocata dopo comune accordo, secondo certe regole. La cultura vera esige sempre e per ogni rispetto fair play e fair play non è altra cosa che l’equivalente, espresso in termini di gioco, di buona fede. Il guasta-gioco guasta la cultura stessa. Se questa qualità ludica vorrà creare o promuovere la cultura, allora dovrà essere pura. Non dovrà consistere nel pervertimento o nell’abbandono delle norme prescritte da ragione, umanità e fede. Non dovrà essere una falsa apparenza dietro la quale si mascheri un disegno di realizzare date mire con forme ludiche appositamente coltivate. Il vero gioco esclude ogni propaganda. Ha in sé la sua finalità.”[28]
La crisi della civiltà si iscrive nella perdita dei valori etici, ma l’etica come cultura è generata in gioco, dunque la crisi si inscrive in una cornice ancor più vasta. La crisi è l’effetto di uno smarrimento dell’originaria disposizione a giocare.
Conclusione
Giocare, per chi ha orecchie, è imitare la Sapienza, la quale, fin dalle origini del tempo, giocava al cospetto del Creatore e così creava, produceva cultura deliziosa per gli uomini. La speranza per l’uomo è quindi recuperare tale ideale di gioia come fonte di ogni etica umana, recuperare il gioco di imitazione della Sapienza che nella sua danza ludica crea cultura. Dunque, se Huizinga è forse caduto in quel pessimismo in cui cade ciascuno spirito drammatico in tempi difficili, si risolleva alla fine afferrando la speranza:
“Allora io ero con lui come architetto
ed ero la sua delizia ogni giorno,
dilettandomi davanti a lui in ogni istante;
dilettandomi sul globo terrestre,
ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo.
Ora, figli, ascoltatemi:
beati quelli che seguono le mie vie!
Ascoltate l’esortazione e siate saggi,
non trascuratela!”[29]
Ecco la speranza etica che a ciascuno è offerta. La Sapienza parla di sé e dice che giocando poneva delizie tra i figli dell’uomo: un uomo non può fare altrettanto?
Dunque, come per Schiller, anche per Huizinga parlare del gioco non è un chiudersi alle problematiche “serie” della vita, al contrario legge, guerra, conoscenza, arte, mitologia, filosofia, politica, moralità – tutti gli aspetti più importanti della cultura umana – hanno una relazione fondante col gioco. La critica alla società occidentale moderna dimostra che, negando spazio e dignità al gioco, questi stessi campi “seri” della cultura inevitabilmente degenerano insieme al senso ludico qualora questo sia rimpiazzato dal suo simulacro, il puerilismo. In sintesi dimostra da un lato che c’è una crisi moderna, che è oggettiva (non è mera debolezza soggettiva), è profonda, grave, è sotto forma di una lenta ma inevitabile esplosione di puerilismo; dall’altro dimostra il bisogno di riconsiderare completamente il valore e la funzione del gioco nell’ambito della vita di ogni società: svalutarlo porta appunto con sé la crisi, perché giocare implica essere liberi e imparare l’autocontrollo, implica non fare trionfare sempre l’utile e separarsi dal corso meccanico e produttivo della vita.
[1] La definizione del fenomeno di puerilismo è ciò a cui tende il saggio in questione ed è concetto molto articolato e sommariamente esposto nella nostra ricerca. Usiamo comunque il termine prima di averlo definito per rispettare l’intuizione geniale di Huizinga.
[2] Huizinga, Homo Ludens, Einaudi, Torino, 2002, Prefazione.
[3] Cfr. C. Gily, In-Lusio, Eurocomp 2000, Napoli, 2002, p.24.
[4] Ivi, p.26.
[5] Ivi, p.28.
[6] Ivi, p.29.
[7] Cfr. J.Piaget, La formazione del simbolo nel bambino, La nuova Italia, Firenze, 1974.
[8] Cfr. C. Gily, In-Lusio, Eurocomp 2000, Napoli, 2002, p.30.
[9] Come ben dice U. Eco nel saggio introduttivo all’edizione Einaudi.
[10] Lì dove il gioco, in base alle speculazioni di Plotino secondo cui ogni cosa tende alla “teoria” intesa come visione, verrà considerato come conoscenza.
[11] Huizinga, Homo Ludens, p. 6.
[12] Ivi, p. 6.
[13] Ivi, p. 13.
[14] Cfr. § 1.11.1 della presente ricerca.
[15] L.Frobenius, Kulturgeschichte Afrikas.
[16] Huizinga, Homo Ludens, p. 23.
[17] Cfr. Platone, Leggi, VII, 790-804.
[18] Huizinga, Homo Ludens, pag 88.
[19] Ivi, p. 229.
[20] Infatti essi sono compresi sotto la categoria dello spettacolo, in cui la massa dei soggetti assiste passivamente e senza alcuna possibilità di interazione con il gioco. Solo per un processo di immedesimazione negli sportivi (che per giunta diventano in tal modo degli idoli) lo spettatore si sente coinvolto nel gioco sebbene non sia per nulla coinvolto nella relazione reale. In sostanza è un modo di non far giocare facendo anche credere che si stia giocando.
[21] Che nasceva appunto dalla diretta partecipazione al rito-gioco.
[22] Infatti il principio logico dell’individualità soggettiva (lo spirito) è l’infinito mentre il principio delle regole e dei limiti è il finito.
[23] Vedi il caso emblematico di Jodorosky, artista molto noto che attualmente pratica divinazioni esoteriche nei bar di Parigi, accompagnato dai suoi adepti e seguito da migliaia di idolatri.
[24] Che in passato non era gioco: il vero impulso a conoscere la verità mediante l’esame scientifico disprezza il trionfo sull’avversario e lo scienziato che sbaglia ammette il suo errore.
[25] Huizinga, Homo Ludens, p. 242.
[26] Ivi, p. 243.
[27] Trad.: i patti non si devono rispettare.
[28] Ivi, p. 248.
[29] Proverbi, 8, 30-33.