Il cibo per i Romani non rappresentò semplicemente una mera esigenza di sopravvivenza, ma assunse, nel tempo, un valore sociale e culturale, che si evidenziava non solo in occasione dei grandi banchetti con ospiti illustri, ma anche durante la cena di tutti i giorni con i familiari. Si passò, infatti, dall’originaria dieta a base di holera et legumina (verdure e legumi), all’introduzione di numerose varietà di cibi, provenienti anche dai nuovi territori conquistati, incrementando soprattutto il consumo di carne e pesce, alimenti che, in precedenza, comparivano sulle tavole solo in occasioni particolari. Questo aspetto darà luogo allo sviluppo dell’arte gastronomica (ars culinaria): si studiarono ricette più o meno elaborate e raffinate, arricchite da numerose spezie, creando in questo modo vere e proprie coreografie nelle diverse portate.

Nelle loro villae i Romani allevavano pollame, selvaggina, pesci e persino ghiri. Questi ultimi venivano allevati in recipienti di terracotta bucherellati (gliraria), affinché, costretti all’immobilità, fornissero carne grassa e tenera. Erano molto amati anche funghi e carne di bue e maiale. Ma la differenza fondamentale fra il nostro gusto e quello dei Romani risiede, soprattutto, nei condimenti che davano ai cibi sapori acuti e dolciastri. I più usati erano le salse di pesce, che, dopo una lunga preparazione, venivano conservate in anfore all’interno di cantine. Questo prelibato liquamen si preparava con interiora e pezzettini di pesci mescolati in una ciotola, in modo da formare una poltiglia, poi esposta al sole perché fermentasse. Veniva, dunque, posto in un cestino e il liquido filtrato, unito a sale e spezie, costituiva il garum. Un buon dosaggio di questa sostanza rendeva deliziosa anche la pietanza più semplice.
Un altro ingrediente molto utilizzato in cucina, sia per insaporire i cibi che per conservarli, era il miele, con cui, ad esempio, si cuocevano i funghi. Per vendere anche il miele “cattivo”, rendendolo commestibile, si ricorreva ad un particolare stratagemma: si mescolava il miele “cattivo” con una quantità maggiore di miele buono. In questo modo si potevano vendere tutte le confezioni di miele, nonostante non fossero più buone.
“Cum sale panis latrantem stomachum bene leniet” (Pane con sale basta per calmare lo stomaco che urla): così Orazio (Sat. II, 2, 17-18) raccomandava il sale come alimento salutare e anche Plinio (Nat. Hist. XXXI, 88-89) ricordava che questo era sin dalle origini un alimento.
Esistevano diversi tipi di pane: quello nero, o dei poveri, ricco di crusca (panis plebeius o rusticus); il pane bianco non finissimo (panis secundarius); e, infine, quello di lusso preparato e cucinato con farine bianche più pregiate (panis candidus o mundus).

Da evidenziare la presenza, molto frequente nella dieta romana, delle uova che potevano essere servite almeno in tre modi differenti: matura (sode), mollia (barzotte) e sorbilia (al guscio). Le uova costituivano l’incipit del banchetto. “Longa quibus facies ovis erit, illa memento, ut suci melioris et ut magis alba rotundis, ponere: namque marem cohibent callosa vitellum” (Le uova di forma allungata, quelle ricorda di mettere in tavola: sono più saporite e d’albume più chiaro di quelle rotonde. Il loro guscio, infatti, contiene un tuorlo maschio). Con questi versi Orazio (Sat. II, 4, 12-14) rimarca l’importanza che le uova avevano nella cucina romana sin dalle origini, perché rappresentavano un importante apporto proteico alla dieta a base di holera et legumina, in quanto la carne costituiva una rarità. L’alimentazione vegetale occuperà sempre un ruolo di primo piano nel mondo romano e questo emerge sia dai numerosi riferimenti delle fonti sia dalle celebri ricette di Apicio scritte nella sua opera De re coquinaria.
APICIUS, DE RE COQUINARIA
LIBER IX
VIII. IN ECHINO
- In echino: accipies pultarium novum, oleum modicum, liquamen, vinum dulce,
piper minutum. facies ut ferveat. cum ferbuerit, in singulos echinos mittes,
agitabis, ter bulliat. cum coxeris, piper asparges et inferes.
- Aliter ‹in› echino: piper, costum modice, mentam siccam, mulsum, liquamen,
spicam Indicam et folium.
- Aliter ‹in› echino: solum mittes in aqua calida, coques, levas, in patella
compones, addes folium, piper, mel, liquamen, olei modice, ova, et sic obligas.
in thermospodio coques, piper asparges et inferes.
- In echino salso: echinum salsum cum liquamen optimum, caroeno, pipere,
temperabis et adpones.
- Aliter: echinis salsis liquamen optimum admisces, et quasi recentes
apparebunt, ita ut a balneo sumi possint.
Traduzione
Libro nono
VIII. RICCIO DI MARE
1.Per il riccio: prendi una pentola nuova, poco olio, salsa, vino dolce, pepe tritatissimo. Fai in modo che bolla. Quando avrà bollito, metterai nei singoli ricci la salsa; girerai e farai fare tre bollori. Quando sarà cotto, cospargerai di pepe e servirai.
- Altro modo per il riccio: pepe, poco mosto, menta secca, vino melato, salsa, una spiga indica e una foglia di nardo.
- Altro modo per il riccio: mettilo intero nell’acqua calda e cuocilo; levalo; accomodalo in padella, aggiungi una foglia di nardo, con pepe, miele, salsa, poco olio, alcune uova e così lega il tutto. Lo cuocerai sulla brace e lo cospargerai di pepe e lo servirai.
- Riccio salato (conservato sotto sale): tempererai il riccio salato con ottima salsa, con vino dolce cotto e con pepe; lo servirai così.
- Altro modo: mescolerai i ricci salati con ottima salsa e appariranno quasi freschi; così si potranno magiare come se uscissero dal bagno.
Tratto da “La cucina dell’antica Roma” a cura di Clotilde Vesco Edizioni Newton Compton 1994
Per la colazione, in latino ientaculum, i Romani mangiavano del semplice pane e formaggio che poteva essere accompagnato da latte, vino e, ovviamente, da miele. Prima di cominciare a mangiare il primo pasto della giornata, bevevano un bel bicchiere d’acqua.
Verso mezzogiorno, durante il prandium, che molto spesso si svolgeva in piedi e velocemente, consumavano pesce, verdura, carne fredda, pane e frutta.
La cena iniziava quasi per tutti alla stessa ora, ora ottava in inverno, ora nona in estate, e poteva durare fino all’alba. Famose infatti sono le cene di Trimalcione che arrivavano fino allo spuntar del giorno. Durante la cena poteva essere servito ogni tipo di pietanza. Molto importante era la trasformazione dei prodotti naturali che dovevano cambiare completamente aspetto e stupire, ma allo stesso tempo ingannare, i commensali; oppure gli abilissimi schiavi-cuochi, i cosiddetti pistores, mantenevano intatto l’aspetto del prodotto, ma ne cambiavano completamente il sapore. Il loro compito era anche quello di rendere gradevole il sapore di prodotti alimentari ricercati esclusivamente per la loro originalità e rarità. “A quando i gabbiani?”, domanda Orazio sarcastico.
Sitografia
- Affresco Natura Morta da Pompei Museo Archeologico Nazionale Napoli
- Mosaico pavimentale Grotte Celoni Palazzo Massimo alle Terme